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***

RENATA RUSCA ZARGAR

MANUALE DI NUMEROLOGIA


IL DESTINO DEL NOME - IL NUMERO DEL DESTINO
IL NUMERO EQUILIBRATORE - TABELLE DEGLI ACCORDI
E DEGLI OPPOSTI - OROSCOPO E DIAGRAMMA DELLA VITA 

 

F.to 14x21, pp. 72, Euro 8,00
(Ed. 06/2004) Cod. ISBN 88-8185-631-X

 

IL LIBRO E L'AUTRICE

  Con questo manuale il lettore potrà da solo, seguendo chiare e semplici istruzioni, ricavare tutte le informazioni necessarie per il suo tema numerologico ma, soprattutto, scegliere positivamente i momenti in cui praticare le varie attività della vita. Vengono trattati i seguenti argomenti: Il destino del nome; Il numero del destino; Il numero equilibratore; Tabella degli accordi con gli altri; Tabella degli opposti; L’anno personale; I numeri temporanei; L’oroscopo numerologico del mese; Diagramma della vita: cicli, pinnacoli, opposizioni.

  RENATA RUSCA ZARGAR, insegna materie letterarie nella scuola superiore e scrittura creativa all'Università delle Tre Età di Savona.
Autrice di racconti su temi storici e sociali, studiosa di cultura indiana e islamica, organizzatrice e membro di giuria di vari premi letterari, si occupa da molti anni di numerologia, approfondendo la sua conoscenza sui migliori testi specialistici e curando anche una rubrica radiofonica in cui ha fornito informazioni e consulenza al pubblico.

 

***

Insegnante di ruolo di materie letterarie nella scuola superiore e  del corso di SCRITTURA CREATIVA dell’UniSavona, Università delle Tre Età di Savona, è fondatrice e Presidente dell’Associazione Culturale Savonese “ZACEM”, un gruppo di poeti e pittori.

E’ stata fondatrice e Segretaria del Centro  Culturale Islamico Savonese e  della Liguria e collabora con la Comunità Islamica ligure.

Scrive da molti anni su diverse testate tra cui  “IL LETIMBRO” (settimanale della Diocesi di Savona-Noli) e  “ARCOBALENO” (mensile del Ponente Ligure per cui, inoltre, cura la rubrica “ANGOLO DELLA POESIA”)  occupandosi specialmente di scuola e  cultura ed è apparsa con articoli vari su diverse altre pubblicazioni quali: “L’AGENDA” del Comune e della Provincia di Savona, “L’UNIONE MONREGALESE”,  “GENTE DI RIVIERA”,   ecc.

Ha ideato e condotto per due anni una trasmissione radiofonica locale a carattere filosofico-esoterico ed ha partecipato a diversi altri programmi a carattere culturale.  Esperta numerologa.                     

Consulente editoriale, fa parte del Comitato di valutazione del Caffè Letterario Ed. La Bottega.

In passato è stata ideatrice,  organizzatrice e membro di giuria  del Concorso di narrativa “C’ERA UNA VOLTA”  bandito dalla Scuola Media di  Spotorno e ideatrice, organizzatrice e segretaria del Concorso letterario nazionale “SCRITTORI DELLA DOMENICA” bandito  dal settimanale “Il Letimbro”. E’, inoltre, ideatrice, organizzatrice, presidente di giuria del Concorso Letterario Nazionale di Poesia “CITTA’ DI VADO - POESIE SULLE PIASTRELLE”  bandito dalla città di Vado Ligure (SV) alla IV edizione nel 2001.

E’ stata membro di giuria del Concorso per alunni delle scuole elementari, medie e superiori “LA CIVILTA’ DELL’ULIVO” bandito dalla Camera di Commercio di Savona nel 2000.

Ha organizzato e diretto nel 2000 e nel 2001 presso la sede provinciale dell’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla) un “Laboratorio di Poesia” per i malati di sclerosi multipla, aperto a tutti, con la partecipazione di poeti e prosatori locali ed alunni delle scuole medie e superiori.

Ha curato la pubblicazione di alcune antologie ed ha partecipato ad altre con brani e poesie. Scrive commenti critici per alcuni noti pittori (Piero Vado, Caterina Massa, Adriana Martino, Armando Esposto, Afra Gattuso, Aurelia Trapani, Emanuela Venier, ecc.) e prefazioni per volumi di poesia e narrativa (Mario Siri, Maria Franca Ferraris).

Ha coordinato e prefato il volume “L’ANTOLOGIA”,  rassegna di 70 tra poeti e pittori con la partecipazione della Scuola Elementare del Santuario e della Scuola Media Giuria Chiabrera di Savona e il I, II e III volume e CDROM “POESIE SULLE PIASTRELLE” .

Ha partecipato, coordinandole e dirigendole, ad alcune trasmissioni (Laboratorio di poesia) di TELEGRANDA (CN)

E’ presente su Internet ai seguenti indirizzi:

www.club.it./autori/renata.rusca.zargar

www.literary.it

 

E-mail: zargar@libero.it  -  rrzargar@gmail.com

 

Scrive di lei il critico dott. Guido Pagliarino: -E’ uno stile svelto e gradevole quello di Renata Rusca Zargar, docente di lettere e di geografia, già autrice di fiabe su temi come la fragilità umana, l’affetto parentale, l’amicizia e di racconti derivanti dalla più cruda realtà. Comune a tutti è l’espressione di un grande amore per gli esseri umani, di una pietas verso i derelitti di cui la Rusca Zargar è venuta a conoscere la situazione e la storia. Naturalmente, se è vero che si tratta di opere ispirate al più assoluto reale, questo viene però decantato nello spirito della narratrice e ne deriva non una fredda testimonianza antropologica ma un caldo esprimere...-

 

Ha vinto innumerevoli premi sia per la poesia che per la narrativa tra cui i più importanti sono: “MARGUERITE YOURCENAR”, “CITTA’ DI AVELLINO”, COLLI DEL TRONTO, “JACQUES PREVERT”, “GRAN PREMIO TERRA DI LIGURIA”, CENTRO EDITORIALE IMPERIESE, “EMILY DICKINSON” di TARANTO, RIOFREDDO di MURIALDO, ecc.

E’ inserita sull’“ATLANTE LETTERARIO ITALIANO” di Libraria Padovana e  nel  DIZIONARIO AUTORI   CONTEMPORANEI di Piemonte, Val d’Aosta, Liguria, della Casa Editrice Menna   di Avellino con il brano “BAMBINI A DELHI”. Due poesie sono state pubblicate su “INCHIOSTRO” bimensile de Il Riccio Editore Verona, un racconto a sfondo storico è stato inserito nell’ARCHIVIO DIARISTICO NAZIONALE di PIEVE S. STEFANO.  Il racconto “Ashoka Ice Cream” è stato pubblicato sulla rivista PUNTO DI VISTA di Libraria Padovana Editrice.

 

Il racconto “FINALMENTE SONO QUI” è stato pubblicato nel volume “Matriciana Cuscus” edizione Il Poligrafo a cura di GIULIO MOZZI che, a proposito del racconto, scrive così: -La situazione non può non sembrare forzata –la famiglia all’aeroporto, la lettura casuale d’una rivista dimenticata in sala d’aspetto…- ma non è questo che conta. Conta, piuttosto, ciò che in questo racconto non è risolto. Da una parte l’infibulazione, dall’altra le donne nude in tv. Da una parte la soggezione al maschio, dall’altra un esercizio quasi casuale della sessualità. Da una parte la polvere e la siccità, dall’altra l’elettricità e l’acqua corrente… Alla fine del racconto, le contraddizioni sono tutte ancora lì. Perché -forse- le contraddizioni non si possono risolvere, perché le contraddizioni sono nelle stesse tradizioni, in ciò che ci costituisce come persone. Io non saprei mai essere altro da ciò che sono: posso per così dire disertare, come fa la donna del racconto, ma non posso smettere di essere ciò che sono. E la condizione del disertore è quella di non poter più tornare in patria, e di non essere in patria nel luogo dove è costretto a stare.-

 

FINALMENTE SONO QUI

 

Finalmente sono qui, all’aeroporto. Tra due ore decollerà il mio volo per Tunis e di là, con il solito autobus traballante, raggiungerò Medenine prima, e Hassi Hamor poi, il piccolo insieme di case sparse dove sono nata e che ho lasciato per venire a vivere in Italia, dieci anni fa.  In questa sala d’attesa, con le mie tre figlie che fanno chiasso, mi sento ancora più estranea e sola di quanto lo sia, ogni giorno, in un paese che non è il mio.  Infatti, c’è tanta confusione perché molte persone stanno partendo per le vacanze estive.  So bene che alcuni europei, marito e moglie, le trascorrono separati, per divertimento. Non capisco come sia possibile che non desiderino stare insieme in ogni momento della vita e che, invece, ognuno guardi ad altre donne ed altri uomini…  

In Italia è tutto ordinato e pulito: strade, case, palazzi, non certo come al mio paese in cui la polvere del deserto invade prepotente ogni cosa!  Eppure la gente non è felice. Per questo, dopo tanti dubbi ed incertezze, ho deciso di seguire la tradizione.

-Mamma, mamma, - strilla la più piccola delle mie figlie, Nashrine, interrompendo i miei pensieri -comprami la cioccolata!-

-Non abbiamo molti soldi da spendere-le rispondo –ed il viaggio sarà lungo. Papà è rimasto a lavorare al ristorante per permettere a noi di andare a trovare la nonna che non sta tanto bene e dobbiamo cavarcela da sole.-

Vicino al bar dell’aeroporto c’è un forte odore di caffè.  La cosa più sgradevole in Italia è proprio il caffè!  Così amaro, duro, ancora adesso, dopo tanti anni, il suo aroma mi fa fuggire! Noi non beviamo questo tipo di caffè ma un altro, più soffice, lungo, che si adatta alla sete del deserto. Davanti a me, tra poltrone e trolley, si muovono famiglie con bambini di tutte le età: la scuola è chiusa e quindi possono andare in vacanza. Anche le mie figlie sono in vacanza: la più grande, Fatima, ha già dodici anni ed ha finito la seconda media. Sta diventando una signorina… Per questo non voglio che impari a comportarsi come certe donne di qui. Ne ho conosciute molte, andando a pulire nelle loro case: alcune hanno un amante, tradiscono il marito e certamente lui tradisce loro. Ciononostante, continuano a vivere insieme anzi, spesso ambedue si mostrano davanti a tutti come se fossero in pieno accordo! Non voglio che le mie figlie diventino così un giorno! Mia madre ha compreso questa situazione e mi sta proponendo, da diversi anni, di seguire, per le mie figlie, la tradizione delle mie sorelle: l’infibulazione, cioè la circoncisione femminile. Una volta, infatti, si è recata presso una parente, a Medenine, a vedere la televisione italiana: è rimasta sconvolta da tutte quelle donne seminude che si agitavano, davanti e dietro, sullo schermo.

-Che libertà è quella, -mi chiede ogni volta che torniamo in Tunisia- quando la donna vende il suo corpo ed è oggetto per tanti uomini? Bisogna tornare alle vecchie tradizioni a tutti i costi. Non appena le tue figlie raggiungeranno l’adolescenza, allora bisogna prepararle e farle diventare adulte.-

Ma io non sono stata circoncisa. Quando mio padre, che lavorava nell’unica manifattura di ceramica del nostro villaggio, è morto di cancro al fegato, forse, chissà, per tutte le sostanze coloranti usate, la mamma mi ha mandato a vivere con una sua sorella a Medenine. Ricordo, però, che mia sorella più grande, Nura, anni prima, aveva avuto la sua festa. Le donne anziane si erano riunite in una casa vicina alla nostra da dove giungevano suoni di tamburo e canti. Io ero stata tenuta lontana, ma avevo sentito Nura gridare e piangere a lungo. “ Mi era stato detto – ella mi aveva raccontato, qualche tempo dopo - che ci sarebbe stata per me una grande festa: sapevo che in breve sarei andata sposa e ne ero felice. Avrei lasciato la nostra misera capanna ai margini del deserto per vivere in una vera casa, in città, con l’acqua corrente. Pensavo solo che non sarei dovuta più andare ad attingere al pozzo sotto il sole cocente, trascinando i secchi nel sentiero polveroso! O addirittura, come si fa spesso, scavare sotto le pietre e la sabbia per trovare quel poco d’acqua, quando le piogge sono troppo scarse! Tu non lo ricordi, perché eri nata da poco, ma nostra sorella Shamima è morta a tre anni di diarrea. Il medico aveva detto che si era ammalata a causa dell’acqua ed io avevo assistito a tutta la sua lunga e tremenda agonia, quando i suoi occhi enormi e neri bruciavano, implorando aiuto, nel suo misero corpo stremato. Finalmente tutto ciò per me sarebbe finito! E poi tutti si occupavano di me, si complimentavano, dicevano che sarei divenuta donna. La festa si sarebbe tenuta in un’altra casa dove c’era già chi suonava il tamburo e chi cantava. Le donne giunte a festeggiarmi erano molte e questo mi rendeva ancora più gioiosa. Poi, improvvisamente, alcune di loro mi avevano afferrata con forza, mi avevano spogliata dalla vita in giù senza badare alla mia umiliazione e mi tenevano ferma con le loro robuste braccia. Intanto, continuavano a cantare, sempre più forte, mentre il ritmo dei tamburi diveniva più assordante e veloce. La donna più anziana aveva un rasoio tra le mani e sapeva maneggiarlo con grande abilità: avevo provato un terribile dolore nella zona dei genitali ed il sangue aveva iniziato a sgorgare. Per giorni e giorni la ferita mi aveva doluto e non riuscivo neppure a stare seduta.”

Passato qualche mese, Nura era andata sposa. Non ci vedevamo più molto, e non avevo più pensato alla “festa”. Un giorno, riordinando nelle vecchie valigie in cui tenevamo i nostri pochi abiti (allora a casa non avevamo nessun armadio né altri mobili), avevo trovato un biglietto con dei versi molto tristi:

“Una bestia ferita io sono

e voglio restare nella mia tana

in silenzio

a morire.

Ti ho pregato tanto o Dio

di lavare il mio sangue rappreso

di alleviare questo male profondo

come la morte.

Ed è solo una fredda risposta

la Tua

in questa solitudine compatta

della mia morte.”

 Non sapevo di chi fossero quelle parole e certamente avrei chiesto informazioni a Nura, quando fosse venuta a trovarci. Poi papà si era ammalato, tutto mi era passato di mente travolti, com’eravamo, da una simile angoscia e, infine, io ero andata a vivere con la zia. Certamente, l’esperienza di mia sorella non era stata piacevole, ma erano passati parecchi anni ed ora le tecniche sicuramente non sarebbero state le stesse.

-Vedrai, - insiste mia madre anche quando ci sentiamo per telefono- sarai contenta di continuare com’è giusto che sia! Nella nostra famiglia le donne sono state sempre al loro posto. Le tue figlie non correranno dietro ai ragazzi e si comporteranno bene. Presto troveremo per loro delle buone famiglie ove maritarle…-

-Mamma, mi scappa la pipì!- la mia piccola Sara deve essere accompagnata al gabinetto. La gente spinge con disinvoltura i carrelli zeppi di valigie e borse, chiacchierano, salutano i parenti. Come sempre, insieme, le mie tre figlie corrono, saltano, ridono… creano tanta confusione.  Fatima sta diventando una bella ragazza: è piuttosto alta, come molte tunisine e come me, le sue gambe sono diventate lunghe e snelle, il corpo si è fatto flessuoso, i capelli lunghi e ricci stanno legati a fatica. -Devi far loro indossare l’hiyab. – mi ricorda ancora mia madre -Ormai i capelli di Fatima sono quelli di una donna.-

Lo so, Fatima passa molto tempo a pettinarsi, a guardarsi allo specchio, mi spia per imitarmi. Ricordo ancora il periodo della mia adolescenza: anch’io ero curiosa di tutto, volevo conoscere il mondo degli adulti, essere “grande”. Ma so di ragazze italiane di quattordici anni, ed anche meno, che hanno già avuto rapporti sessuali con dei maschi. E questo mi terrorizza! E’ molto difficile mantenersi onesti in una società dove i valori morali delle donne non esistono più. Eppure noi dobbiamo vivere qui, in Italia, perché al nostro villaggio manca tutto, persino l’elettricità, e lavoro non ce n’è.  Intanto, cercheremo di risparmiare un po’ di soldi e poi torneremo a casa. Magari metteremo su un negozio di ceramiche a Medenine… Ma per ora ciò non è possibile.

–Quando partiamo, mamma? Mi annoio in questa stanza.- chiede Nashrine.

-Manca poco, ormai.- rispondo.

-La nonna ci aspetta all’aeroporto?- domanda, invece, Shamima.

-No, certamente, la nonna ci aspetta a casa e starà già preparando il couscous che vi piace tanto.-

Non c’è niente di più buono che il cibo della propria casa e della propria infanzia. Il villaggio, come sempre, sarà mobilitato al nostro arrivo, tutti accorreranno a salutarci e recheranno qualche piccolo dono: dei datteri, della frutta secca, delle caramelle. Come sempre, li lasceranno cadere sulle nostre teste in segno di buon augurio, ci abbracceranno, ci chiederanno le ultime novità della nostra vita. Anche noi abbiamo portato le piccole cose che ci hanno richiesto: qualche pezzo di sapone italiano, uno shampoo, della liquirizia. Insieme prenderemo il tè e parleremo nella nostra lingua. Finalmente! Poi seguiremo la tradizione del nostro villaggio.

La zia, invece, mi diceva sempre: -Non ti farò toccare da quelle macellatrici! L’hanno fatto a me, tanto tempo fa, e mio marito, ogni volta, mi procurava un dolore insopportabile. Mi avevano tolto tutto, senza pietà. Perché? Io amavo mio marito che mi era stato scelto da mio padre. Ma egli si era stancato perché gridavo e piangevo ogni volta che si avvicinava a me. Infine, mi aveva proposto di accettare in casa una seconda moglie. Ma io non avevo voluto. Come avrei potuto sopportare di vederlo davanti ai miei occhi con un’altra, quando io non potevo essere la moglie che lui desiderava? Così avevamo divorziato. Lui, che era un brav’uomo, mi aveva lasciato molto denaro con il divorzio. Sapeva bene che nessun altro mi avrebbe voluta e che non avrei potuto tornare da mio padre che era tanto povero! Vedi, non mi è mancato nulla: ho la mia casa, vestiti, oro, tutto il necessario, ma ho sofferto tanto la solitudine ed ora ci sei unicamente tu per me. Non ho potuto avere figli miei, a causa di quel trattamento infame, e non permetterò che succeda anche a te!-

Poi, era giunto Saleb: mia madre, al villaggio, mi aveva promessa a lui e c’eravamo sposati. Lentamente, la prima notte dopo il matrimonio, egli si era accorto della mia integrità. Ne era stato felice. Non desiderava, infatti, mi aveva confessato in seguito, una moglie mutilata… Ma io avevo sempre vissuto in Tunisia, ero protetta dalle nostre abitudini, dalla società, la zia vegliava come una madre su di me…

Saleb, mio marito, non sa ancora il vero motivo del mio viaggio. Per questo ho voluto anticipare la partenza ed egli, dopo averci accompagnate a Genova, è tornato a lavorare, come sempre, a Vado Ligure dove viviamo. Ci raggiungerà a settembre e torneremo poi tutti insieme in Italia.  Ma finora non ho voluto parlargli di questo problema, ho paura di affrontare con un uomo questo argomento e non so se si opporrebbe o no…

- Non ti preoccupare di nulla, - afferma convinta mia madre, ogni volta che le esprimo i miei dubbi- Saleb sarà contento, alla fine anche lui capirà che ora, più di prima, è necessario seguire questa pratica. –

Su di un tavolino è appoggiata una bella rivista colorata, forse dimenticata da un viaggiatore. Sfogliandola, mi capita proprio sotto gli occhi la fotografia di un’avvenente donna velata, dai penetranti occhi scuri.  L’ articolo, scritto in ordinati caratteri neri proprio accanto alla fotografia, si intitola: “Sesso- Discussioni: La clitoridectomia”.  Non posso fare a meno di leggere, anche se un po’ a fatica, dato che comprendo meglio il francese dell’italiano: “La maggior parte degli studiosi si trovano d'accordo nel classificare la  circoncisione femminile in tre tipi base: la circoncisione, che consiste nella recisione del prepuzio della clitoride e cioè la forma più blanda perché preserva la clitoride e le parti posteriori più ampie delle piccole labbra, la clitoridectomia o recisione che è la pratica più comune e implica la rimozione dell'intera clitoride insieme con tutta o una parte delle piccole labbra e, infine, l'infibulazione che è la forma più severa di questa pratica. Il termine deriva dal latino fibula, la spilla utilizzata per agganciare la toga romana. La fibula era usata inoltre per prevenire il rapporto sessuale tra gli schiavi; veniva fissata attraverso le grandi labbra delle donne e attraverso il prepuzio degli uomini.  L’infibulazione comporta il taglio della clitoride, delle piccole labbra e delle grandi labbra. Le rimanenti estremità delle grandi labbra sono quindi cucite insieme in modo tale che l'orifizio vaginale venga chiuso. Durante il processo di guarigione viene inserita nella vagina una scheggia di legno per poter permettere il passaggio dell'urina e del sangue mestruale. A seconda dei differenti costumi, la ferita viene cucita con filo di seta o per suture (in Sudan) o con spine di acacia (in Somalia). Le ceneri usate per controllare l'emorragia, in special modo nelle aree rurali dell'Africa occidentale, sono spesso causa d'infezioni violente. In seguito all'operazione, le gambe della ragazza vengono legate e viene così immobilizzata per diverse settimane finché la ferita della vulva non guarisce. La prima notte di nozze la cicatrice dei genitali deve essere defibulata per consentire la penetrazione. Generalmente, in seguito ad ogni nascita la reinfibulazione viene praticata per restituire al corpo della donna la sua "condizione prematrimoniale".  La più antica fonte conosciuta che registra l'uso è l'opera di Erodoto (484-424 a.C.). Egli afferma che la recisione era praticata dai fenici, dagli ittiti e dagli etiopi, come pure dagli egiziani (cioè fin da più di 4000 anni fa). Lo scopo era quello di far diminuire il desiderio sessuale femminile. L'usanza è estesa ancora in quelle aree in cui predominano la povertà, l'analfabetismo e precarie condizioni sanitarie e laddove lo stato socioeconomico delle donne è basso. La circoncisione  viene messa in pratica da animisti, atei, cristiani, ebrei e musulmani in più di ventisei regioni del continente africano, in alcune zone della penisola araba, in Asia e,  secondo alcuni autori, la pratica è stata riscontrata anche tra le tribù aborigene dell'Australia. La tradizione è una giustificazione ampiamente sostenuta per il persistere della circoncisione.  Per una famiglia tradizionale è estremamente raro mettere in discussione l'essenza dell'usanza che è sostenuta da una consuetudine profondamente radicata. La tradizione viene data per scontata, porta con sé la sua stessa validità e lo status quo non è mai messo in dubbio.  La circoncisione è profondamente radicata in paesi sottosviluppati dove l'analfabetismo e la miseria sono molto diffusi, dove le donne devono lottare quotidianamente per sopravvivere e per soddisfare fabbisogni primari. Esse crescono nel contesto delle loro norme culturali, vivono con l'idea che una ragazza non circoncisa sia inaccettabile e non sarà chiesta in matrimonio, che è quasi l'unica soluzione per assicurarsi un futuro, quindi la sofferenza fisica è preferita all'ostracismo destinato ad una ragazza non circoncisa. Questo spiega perché le donne siano le più convinte sostenitrici della pratica e perché le sofferenze ed il rischio di gravi infezioni siano spesso viste come preferibili alla condizione di essere una reietta non circoncisa. La clitoridectomia, inoltre, fino a poco tempo fa era praticata come rimedio chirurgico alla masturbazione sia in Europa sia negli Stati Uniti. Le donne che hanno subito e tuttora fanno subire alle loro figlie la mutilazione sessuale sono circa 100 milioni in circa 30 paesi diversi. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità alla mutilazione sessuale è dovuta circa la metà delle 500.000 morti di donne e dei quattro milioni di decessi di neonati che si verificano annualmente nel Terzo Mondo durante la gravidanza o l'allattamento.”

Improvviso, folgorante, un ricordo lontano: -Un giorno, - mi aveva raccontato la zia- un uomo andò dal Profeta Mohammed (la pace e la benedizione di Dio su di Lui) e gli disse di essere stato assai ignorante e di non aver mai avuto nessuna conoscenza e guida come tanti altri che usavano adorare gli idoli e, per loro, uccidere i figli con le proprie mani: “Una volta, avevo una figlioletta dolcissima che mi abbracciava stretto quando tornavo a casa dal lavoro e nei cui occhi brillavano le lacrime quando mi allontanavo da casa. Se mi sentivo stanco e dolorante, dopo una giornata di duro lavoro con gli animali, mi appoggiava la sua tenera manina sulla fronte per darmi conforto. Ella non aspettava altro che la coccolassi e le parlassi e mi amava con la tenerezza e l’abbandono fiducioso e sincero dei piccoli innocenti. Un giorno la chiamai e la invitai a seguirmi. Lei, correndo sulle sue gambette, orgogliosa di andarsene fuori di casa con il padre, mi veniva dietro, affannata ed allegra come per un nuovo gioco, finché non giungemmo vicino ad un pozzo molto profondo. Aveva le guance rosate per la corsa, mi guardava con i suoi occhi grandi e neri sorridendomi ed attendendo qualcosa di splendido da me... Io la presi per la mano e la gettai nel pozzo. ‘Padre!’ fu l’ultima parola che udii pronunciare, mentre mi supplicava di salvarla.” A quella storia, peraltro assai comune a quei tempi, il Profeta pianse tanto a lungo da bagnare la sua barba. Da allora, ogni uomo che seppellisce vive le sue figlie, le getta nei pozzi  o fa loro del male è considerato vile, crudele e deve essere punito!-

E’ come se un velo scuro finalmente cadesse dai miei occhi: come ho potuto credere che avrei lottato per un domani migliore, facendo del male alle mie stesse figlie? Non seguirò mai questa tradizione: la zia, dal cielo, dove si trova ormai, mi approverà e mi aiuterà ad insegnare, giorno dopo giorno, che si può essere differenti, onesti, sinceri anche senza impedire ai nostri sensi di provare intense emozioni. La donna è una veste per l’uomo e l’uomo è una veste per la donna, è scritto nel sacro Corano. “Le vostre spose per voi sono come un campo” e in un hadith il Profeta (la pace e la benedizione di Dio su di lui) ha invitato esplicitamente a compiere preliminari affettuosi prima dell’atto coniugale.

-Presto, bambine. Torniamo a casa. Non prenderemo quell’aereo ed andremo in Tunisia quando anche papà potrà venire con noi. Oggi l’esistenza della nostra famiglia è cambiata. Dovremo essere forti per imparare davvero a vivere in questo Paese senza false paure, conservando orgogliosamente la nostra diversità, ma abbandonando certe orribili tradizioni del passato.-

 

Renata Rusca Zargar

 

ASHOKA ICE CREAM

 

Ashoka spingeva lestamente lungo Puza Road, a Delhi, il suo piccolo carrettino bianco e azzurro. Da un lato erano appese ordinatamente le file di coni per confezionare il gelato che si trovava all’interno del carrettino stesso mentre copriva il tutto una tendina, sempre a strisce bianche e azzurre, sulla quale spiccava la scritta in grandi caratteri blu “Ashoka Ice Cream”.

Ogni mattina, Ashoka raggiungeva Ajmal Khan Road, una zona movimentata di negozi e di gente, dove il traffico ed il rumore erano incessanti. Moto, auto, biciclette, autorisciò si mischiavano ai molteplici passanti, come api che ronzano sul miele. Egli sistemava proprio là, in un angolino, il suo banchetto e cercava di guadagnarsi la giornata.

Ashoka non era vecchio, o almeno non ricordava quanti anni fossero passati dalla sua nascita, ma il suo aspetto lo faceva apparire piuttosto anziano, con una misera camicia scolorita addosso ed un paio di pantaloni di cui non si capiva più il colore e la forma originale. Anche ai piedi aveva un paio di ciabatte l’una differente dall’altra.

Nella sua famiglia i figli erano stati sempre numerosi: suo nonno ne aveva avuti ben quindici (un dono di Dio!), suo padre dodici ed egli ne aveva solo otto perché due, purtroppo, erano morti da piccoli. Per mantenerli, Ashoka aveva tentato diversi mestieri: da giovane faceva il manovale per un’impresa che costruiva e riparava le strade. Spaccare le pietre con un pesante martello sotto il sole bollente dell’India e respirare i vapori del catrame avevano consumato le sue energie ed era diventato ancora più magro di quanto fosse stato prima. Così l’avevano licenziato ed era andato, per un periodo, a raccogliere la frutta nelle campagne. Per ore ed ore si arrampicava sugli alberi di cocco o di banane, poi accatastava i frutti nelle ceste e li portava al limitare della piantagione dove altri li caricavano sui carri. Faceva sempre tanto caldo, il lavoro era assai duro ed il suo corpo era divenuto persino più scheletrico, se possibile! La paga, invece, era ancora più scarsa e le necessità della famiglia aumentavano. Poi, finalmente, aveva trovato occupazione come uomo delle pulizie in un albergo abbastanza lussuoso. Con buona volontà, inginocchiato a terra, lavava i pavimenti ed i gabinetti, spolverava l’arredamento e rifaceva i letti delle stanze senza un attimo di sosta.  Il salario era ugualmente inadeguato ai bisogni ma, spesso, i clienti lasciavano una mancia o qualche oggetto che egli poteva rivendere. Così, giorno dopo giorno, aveva accumulato una piccola sommetta che gli aveva permesso di comprare il carrettino che lui aveva chiamato “Ashoka Ice Cream”.

Oltre che il suo (e quello della sua piccola impresa), Ashoka era stato il nome di uno dei più grandi sovrani dell’India, della dinastia dei Maurya, tanto tanto tempo prima.

Certamente, nominare così la sua attività gli avrebbe portato fortuna! Ormai i suoi due figli più grandi lavoravano anch’essi e, con un po’ di prosperità, avrebbero potuto aggiustare quelle due misere stanzette in cui vivevano tutti quanti. Ma il problema più grave era che c’erano ben tre figlie femmine da maritare, il che avrebbe comportato, se voleva sistemarle con persone per bene, notevoli spese.

-Oh, Shiva, -pregava Ashoka, appollaiato sul carrettino in attesa di clienti –fammi guadagnare molto. La più grande delle mie figlie, Rada, ha vent’anni e dovremo fare una grande festa per il suo matrimonio. Vedi, stiamo cercando il marito adatto a lei, perché possa andare a vivere in una casa e non in una baracca come la nostra…-

-Un cono, per favore!-qualcuno chiedeva – fragola e cioccolato.-

-Dieci rupie.-

-Shiva, - supplicava ancora l’uomo- fai che oggi possa vendere tutto il mio gelato!-

-Due coni da venti rupie: papaya e mango.-

-Un cono di crema…-

La giornata era stata buona e con essa molte altre: Ashoka, la sera, con le tasche zeppe di rupie spingeva il suo carrettino su per Puza Road fino al gruppo di capanne dove lo aspettava la famiglia. Poi, dopo aver mangiato una ciapati e qualche lenticchia, si stendeva a terra sul pagliericcio e si addormentava. La mattina presto, infatti, dopo essersi rifornito di gelati, ripartiva per Puza Road. Intanto, aveva preso l’abitudine di fermarsi al tempio di Shiva: lasciava per un attimo il suo carrettino davanti alla costruzione e, suonate le campanelle di buon augurio che si trovavano all’ingresso, entrava nel luogo fresco e pulito. Lord Shiva era là, sorridente e sereno con il suo tridente in mano e la compagnia del terribile serpente cobra.

-Forse potrò maritare mia figlia Rada con un nostro lontano cugino che ha un buon lavoro. Ma occorre molto denaro per i regali, per la dote…- Usciva dal tempio fiducioso: Lord Shiva non si sarebbe dimenticato di lui.

Le giornate erano favorevoli: il caldo opprimente spingeva molti bambini, ma persino gli adulti, a comprare i gelati. La sera, prima di dormire, contava le rupie guadagnate e faceva progetti. Anche i figli portavano a casa qualcosa e la moglie, finalmente, aveva potuto comprare alcuni piatti e bicchieri in metallo.

Ogni mattina, dunque, si riforniva di gelato, offriva un’elemosina al tempio e scendeva per Puza Road tra i vapori dei tubi di scarico delle centinaia e centinaia di mezzi che procedevano a zig zag strombazzando avidamente sui clacson.

Finalmente, l’esistenza cambiava in suo favore. Gli affari andavano bene, i figli guadagnavano, Rada era stata fidanzata e, dopo pochi mesi, sarebbe avvenuto il matrimonio. Ashoka aveva iniziato a riaggiustare le due stanzette in cui vivevano dieci persone. Stava pensando anche di condurre un tubo con l’acqua corrente in casa, invece di andarla a prendere  con i secchi ad un rubinetto poco lontano.

Solo, sempre più spesso, si sentiva stanco, mangiava ancora meno e quando, qualche volta, finalmente, insieme alla ciapati, c’era qualche verdura di buona qualità od una ciotola di riso ed un po’ di frutta, l’accoglieva senza entusiasmo. Un giorno, tossendo, aveva sputato del catarro mischiato a sangue. Non ci aveva badato molto, ma poi era successo altre volte.

I preparativi per il matrimonio si facevano più pressanti. Sarebbe stata innalzata una tenda ed almeno quattrocento persone sarebbero state invitate a pranzo. Poi la festa sarebbe continuata fino a notte e la sposa, dopo aver girato intorno al fuoco con lo sposo per sette volte, sarebbe partita per la casa del marito.

Sempre più debole, pochi giorni prima del rito, Ashoka si era recato nell’ambulatorio dell’ospedale. Decine e decine di pazienti aspettavano pazientemente, in coda nella stanza spoglia, di essere visitati. Poi, probabilmente, non avrebbero mai avuto abbastanza rupie da comprare le medicine.

-Tubercolosi.- era stata la diagnosi.

-E’ grave?-

-Sì. Ormai siamo ad uno stadio molto avanzato. Avresti dovuto venire prima.-

- Non c’era mai tempo e mancavano sempre i soldi… Quanto potrò vivere?-aveva chiesto egli già rassegnato.

-Nessuno può dirlo, ma certo non a lungo! Comunque, ti darò una cura.-

-Grazie, mia figlia deve sposarsi presto e non voglio creare dei problemi.-

Silenziosamente, era tornato a casa ed aveva continuato, mattina e sera, a spingere il suo carrettino lungo Puza Road. Così pure aveva elargito le sue elemosine quotidiane al tempio del Dio Shiva sempre sereno e ben accogliente.

E, finalmente, il giorno del matrimonio era giunto. La sposa, bellissima, adornata di gioielli, con le mani ed i piedi decorati con disegni all’henné, aveva affrontato la funzione sotto gli occhi commossi dei parenti e del padre.

Quindi, Ashoka, senza che nessuno se ne rendesse conto, era rientrato nella sua meschina casupola e si era steso sul giaciglio di paglia. Davanti ai suoi occhi, ecco, era giunto il serpente di Shiva. Grande, imponente, la sua sola testa riempiva l’intera stanza ed esso si dondolava spalancando le sue tremende fauci. Il resto del corpo, enorme, lucido di scaglie, era arrotolato dietro il capo che si ergeva osservando Ashoka pacatamente.

-Sono tanto stanco, non so trovare la forza per continuare questa festa.-

Ashoka si era addormentato.

I commensali mangiavano, bevevano, conversavano ed ascoltavano musica sotto la grande tenda della cerimonia. A notte fonda, prima che la sposa partisse per la casa nuziale, Ashoka si era alzato dal pagliericcio ed era andato a salutarla.

L’indomani sarebbe stata una giornata di lavoro, come sempre. Una parte del banchetto era ancora da pagare ed occorrevano tanti e tanti soldi.

Ma gli affari seguitavano ad andare bene: sembrava quasi un sogno che, in pochi mesi, tutti i debiti fossero stati saldati!

-Oh, Lord Shiva, ti ringrazio! Rada è sistemata, i due ragazzi lavorano. Tra qualche anno ci saranno le due bambine da maritare ma anche i maschi più piccoli potranno lavorare. Se gli affari procedono bene, potremo avere un po’ di benessere. Presto, uno dei figli potrà prendere il mio posto al carrettino e chissà… che io non possa un po’ riposare! Lo so, sono molto malato, le forze mi abbandonano ogni giorno di più ma… sarà fatta la tua volontà.-

Ashoka aveva offerto, come ogni mattina, una coroncina di fiori ed una piccola elemosina. Poi, aveva riaffrontato Puza Road. L’aria sembrava ancora più irrespirabile ed il cielo spesso e plumbeo rendeva l’atmosfera più pesante. I dieci milioni di abitanti della città sembravano transitare tutti di là, a quell’ora, con i loro tubi di scappamento che emettevano densi fumi nerastri che bruciavano gli occhi e penetravano nei polmoni.

Autobus e camion lo sorpassavano strombazzando.

Fu così che proprio un camion, per evitare un gruppo di taxi e risciò fermi alla sua destra, non riuscendo a frenare in tempo, aveva sterzato verso il bordo sinistro della carreggiata.

Davanti ad Ashoka era apparso l’eminente serpente di Shiva: questa volta riempiva tutta la strada miracolosamente vuota e pulita e la sua smisurata testa si alzava su, fino al cielo, splendidamente terso e profumato. Il cobra si dondolava al ritmo di una musica dolcissima ed apriva la bocca sconfinata: un tunnel nero verso l’infinito. Ashoka, dunque, vi era entrato sempre spingendo il suo carrettino e si era avviato per i sentieri dove esiste solo riposo e pace. Shiva, il distruttore, l’avrebbe ripreso e ricreato, un giorno, per vivere un’altra vita e perfezionare il suo spirito.

Sulla strada, intanto, l’autista del camion, che si era accorto di aver investito qualcuno, era sceso dal mezzo, mentre la folla si assiepava intorno.

Ma nessuno aveva trovato la vittima.

Nella disadorna stanzetta dove aveva vissuto Ashoka, sul suo vecchio pagliericcio, un piccolo cobra aveva preso il suo posto. Nessuno lo avrebbe mai disturbato né esso avrebbe mai fatto del male ai componenti della famiglia. E gli affari sarebbero andati sempre bene.

 

Renata Rusca Zargar

 

STRANIERO

 

Scacciato dalla mia terra

a piedi scalzi

sono venuto a bussare

al tuo paese

così splendente di luci

dalle strade ordinate e pulite.

Ho desiderato anch’io

- triste peccato -

le scarpe ed una casa ricca

lucida di mobili.

Ma la madre di Cristo

è mia madre

anch’ella scacciata

da ogni locanda del mondo,

di paglia e fieno

è ancora il mio letto

mentre, sotto le coperte

e sottili lenzuola,

riposa il tuo morbido corpo

bianco.

Eppure fino allo sterminato orizzonte

giungeva la mia terra.

Alberi giganteschi

stormivano al sole

intorno al grande fiume

buono

e nella prateria galoppavano

mandrie di animali

abbastanza per calmare la fame.

Ora non è più la mia terra.

Altri mi hanno preso tutto

coi fucili

ed hanno usato la mia donna

illudendola con brillanti cocci

di bottiglia.

Poi il padrone ha chiuso le sue frontiere

ed ancora e ancora

sono gettato su carrette

di navi affastellato ed

affondato.

No, non avranno cibo

né giochi i miei figli

dagli occhi scuri

né medicine a salvarli

dal male.

Non giocheranno sulle strade

ordinate e pulite del tuo paese

e non esiste luogo

dove possano stare.

Non è loro diritto la vita,

la gioia, l’amore…

Ahi! Sento l’acqua scorrere

gorgogliante,

i pesci guizzare tra

lame di luce

e le ombre fresche

delle grotte di foglie

verdi

là, nel mio Paradiso,

dove camminavo felice

a piedi nudi.

 

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